Scomparsi capitolo 1

Sera del 5 novembre 1915. Un sacerdote di mezza età, alto, robusto, energico, è nella sua canonica affianco alla chiesa di Besenello, territorio austriaco. È intento a sbrigare della corrispondenza poco prima di coricarsi. Il freddo è già pungente e la vecchia stufa in ghisa ha ormai esaurito tutta la legna. Non è prudente uscire a prenderne dell’altra dalla catasta, o perlomeno bisogna farlo al buio, con la sola luce dei pochi lampioni elettrici che da qualche anno illuminano la strada principale del piccolo borgo. Non è saggio uscire perché fuori imperversa una bufera, che però non ha niente a che vedere con vento e pioggia. In cielo volano da qualche tempo dei rudimentali aerei che lanciano bombe sui malcapitati di sotto. In lontananza si vede un bagliore folgorante che sembra debba arrivare in paese da un momento all’altro: è il fuoco dell’artiglieria italiana che spera di sfondare la difesa austriaca ed entrare in paese.

La temperatura non lascia scelta al parroco, che non si è mai fatto spaventare dalle difficoltà della vita, affrontando sempre tutto a testa alta e con coraggio. Richiusa alle sue spalle la porta di legno, si incammina verso la legnaia. In quel momento, nell’oscurità appena attenuata dalle fioche lampade, intravede due figure scure, delle quali si distingue solo la punta dell’elmo che indossano. L’incontro è inevitabile, non c’è via di fuga. Senza troppe spiegazioni il parroco viene arrestato e portato via. Il suo volto è un misto di sorpresa, paura e rassegnazione. Non si aspettava quell’arresto, anche se sa che altri concittadini sono stati portati via e che non può fare niente per impedirlo, tanto vale consegnarsi e seguire gli ordini. Ha appena il tempo di portare con sé il breviario, il rosario e pochi altri effetti personali. I gendarmi non vanno troppo per il sottile nell’allontanare il sovversivo.

Don. «In Austria tutto è possibile, specialmente l’impossibile. Dovetti ricredermi quando, giunto in prossimità della canonica, vidi due lanternoni che evidentemente aspettavano qualcheduno e quell’aspettato ero io. […] Quei due così mi vennero incontro e…».

Gendarmi: «Signor curato, in nome della legge, è dichiarato in arresto». 

Don.: «Sta bene, e dove intendono condurmi?». 

Gendarmi: «Intanto a Tione». 

Don.: «Sappiano che senza un mezzo di trasporto mi rifiuto di seguirli». 

Gendarmi: «Non si preoccupi per questo, vi abbiamo già pensato». 

Così riporta il fattaccio don Baldassarre Apolloni, un collega del parroco di Besenello, in un diario che scriverà anni dopo. L’esperienza di don Apolloni – originario di Pieve di Bono e diretto a Tione – è molto simile a quella del curato di Besenello, con una differenza: il primo ne ha scritto, il secondo no. Il pastore di Besenello ha infatti il difetto di essere attivissimo e intraprendente, ma appare tanto umile e modesto da non scrivere nulla su di sé. La sua persona viene dopo le sue opere, al punto che di lui sappiamo pochissimo. È quasi un’ombra nella Storia, un uomo che non vuole clamore, non ricerca attenzione. Ma le sue iniziative quasi debordanti gli procureranno l’effetto opposto. Di lui si parla e se ne parlerà, eccome, anche se per tentare di ricostruire la sua storia bisognerà scavare molto a fondo e occorrerà “servirsi” dei ricordi di chi ha vissuto ai suoi tempi. O lo ha conosciuto. O ha condiviso la sua stessa esperienza, come don Apolloni che in questa storia non è un personaggio chiave ma è un fedele narratore di molti dei fatti accaduti al Nostro. Una sorta di Virgilio che prima di Dante è all’inferno e gli fa strada tra i gironi. Il don di Besenello, al pari dell’Apolloni, finirà infatti recluso in un luogo quasi infernale. Anzi, un “non luogo”, un campo di prigionia dove la vita sembra essere sospesa ed il senso del tempo si perde. Ma questo, il parroco di Besenello, non lo ha ancora visto. Il campo dove è diretto, per ora, è solo uno spauracchio di cui molti mormorano, ma solo chi ne varca l’ingresso può capire che la fama sinistra è anche troppo generosa rispetto alla realtà. 

L’energico religioso non può quindi fare altro che seguire i due gendarmi che lo accompagnano fuori dal paese, sparendo con loro nelle umide tenebre del novembre trentino.

Il giorno dopo l’arresto, in paese non si parla d’altro. Il parroco è stato portato via, si dice a causa delle sue simpatie filo italiane. Uno scandalo! Chi verrà a rimpiazzarlo? Chi curerà le anime di quel paesino piccolo ma di vitale importanza per l’andamento della guerra? Già, la guerra. Forse la scomparsa del parroco è del tutto marginale rispetto ai problemi che causa la guerra. Profughi, requisizioni, fame, commerci chiusi… I bombardamenti degli italiani sono incessanti, le vicine Ospedaletto e Borgo Valsugana vengono colpite ripetutamente, senza contare i comuni ancora più a sud che hanno visto l’inferno. Ce n’è abbastanza per turbare gli animi della gente giorno e notte e, alla fine, un arrestato in più o in meno non fa poi così tanta differenza. Ma non per tutti è così irrilevante. C’è qualcuno, in paese, che resterà tramortito a vita da quello e da altri arresti che stanno avvenendo a Besenello e in tutto il Trentino. È una bambina di 5 anni, vivace, curiosa, appartenente ad una famiglia religiosa e perbene, rispettata da tutti. La bimba si chiama Ester Cucco e malgrado gli altri orrori della guerra cui assiste con i suoi candidi occhi, resta choccata in modo particolare dalla scomparsa del parroco. Lo stupore rimane impresso nella sua memoria al punto da conservare quel ricordo per un secolo. Fino a che, un giorno, lo riporta a galla. 

«Com’era la vita in tempo di guerra?», le si chiedeva. «C’era timore per le catture», rispondeva a chi andava a farle visita nella casa di riposo dove dimorava. Il ricordo, in verità, era confuso. Non sapeva chi fosse stato ad arrestare il parroco e perché. La voce che parteggiasse per l’Italia circolava, ma restano dei dubbi che l’anziana non ha mai dissipato nella sua lunga vita. Né lei né i suoi compaesani sapevano i dettagli, accontentandosi di conoscere quello che era dato conoscere. E così come loro, lo stesso parroco è tenuto all’oscuro del motivo per cui i due gendarmi lo hanno caricato su un treno diretto a Linz. Ma chi è questo curato? Cosa è rimasto di lui, oltre al ricordo nebbioso di un’anziana testimone? Un secolo è passato da quell’evento, ma le domande sono ancora tutte lì, in cerca di risposte.

Don Elvio Pezzi nasce nel 1868 a Dercolo, una frazione di Campodenno che un tempo faceva comune a sé. Parroco di Besenello dal 1907, vi resta fino a quella sera del 5 novembre 1915, quando viene arrestato. Della sua permanenza in paese nell’arco di quegli otto anni altri compaesani scrivono e scriveranno, perché non è un tipo che le manda a dire. Fa valere il suo pensiero, si fa rispettare, e anche la nostra suor Eugenia ricordava che, quando arrivava don Elvio, i bambini scappavano. Le foto del tempo sono sbiadite ma sappiamo che ha 47 anni, è abbastanza alto per l’epoca, ha una mascella generosa e un mento arrotondato. Lo guardo è penetrante e deciso, l’aria fiera e risoluta. Sarà forse stato il suo carattere a causargli un’accusa di irredentismo, cioè di parteggiare per l’Italia, per il nemico? Di tempo per riflettere sugli anni trascorsi a Besenello don Elvio ne avrà parecchio, per sua sfortuna. Non fosse altro per la lentezza del treno:

A mezzanotte il treno è pronto; ci si ordina di salire. Cerchiamo di accomodarci alla meglio unendoci alle persone di maggior confidenza […]. ll nostro era un treno lumaca; andava adagio, si fermava spesso e a lungo, proprio quello che ci voleva per tenerci sulla corda più a lungo[…]. A furia di fermatine e corserelle si arriva a Bolzano. Anche a quell’ora la stazione, senza essere affollata, era animata da loschi ceffi di soldatacci che credevano fulminarci con le loro grinfe […ma] le loro minaccie non ci fecero né caldo né freddo. Al treno si aggiunse una seconda macchina e a furia di strappi quella in capo e di spinte a quella in coda, ci si issa su per le ripide rivolte fino al Brennero, ove giungemmo al spuntar del giorno. Qui si offerse ai nostri occhi uno spettacolo doloroso che ci colpì proprio nella parte più sensibile del cuore. Due lunghissimi treni, uno rigurgitante di Germanici e proprio di quelli dal chiodo, e l’altro stracarico di ordigni che in mano ai nemici fanno così brutto vedere, voglio dire, macchine da guerra, cannoni d’ogni calibro pronti sui loro affusti che sembravano dire: Ora veniamo noi!”. 

È sempre l’Apolloni che parla e ricostruisce minuto per minuto l’esperienza che molti altri come lui hanno vissuto. Compreso don Elvio, che malgrado il carattere tenace è sopraffatto da paura, sconforto, rassegnazione, rabbia. Ma forse, da persona colta e avveduta qual è, non è stato preso poi così di sorpresa. Sa che alcuni suoi colleghi sono già stati allontanati dalle loro parrocchie, così come alcuni compaesani sospettati di essere filo italiani. Ma non ha nulla da rimproverarsi sotto quell’aspetto, il suo comportamento nei mesi di guerra, e anche in quelli precedenti, non può aver dato adito a dubbi sulla sua fedeltà alla monarchia. Eppure qualcosa deve essere successo, qualcuno deve avere ritenuto che non potesse più restare a Besenello.

A poco a poco, mentre il viaggio prosegue, don Elvio inizia a ripercorrere mentalmente tutti i rapporti con i parrocchiani. Quando e come poteva aver proferito una parola che lasciasse intendere una sua simpatia per l’Italia? Alcune ombre iniziano a insinuarsi nella sua mente. E pensare che il suo arrivo in paese era stato idilliaco.

Il 2 luglio 1907 il Conte Gottardo Trapp, patrono della chiesa di Besenello, con una lettera inviata al comune riferiva di aver nominato don Pezzi. Il 14 agosto il comune si era riunito per discutere dell’accoglienza del nuovo curato: qualche giorno prima il Capocomune e il consigliere comunale Costante Cofler si erano recati a Sporminore (TN) per “ossequiarlo” dopo la nomina e per accordarsi sulla data in cui avrebbe preso incarico, il primo settembre. Per preparargli una buona accoglienza il consiglio comunale aveva stabilito di erigere a proprie spese due archi ed “eccitare” la popolazione ad erigerne degli altri. Si era addirittura deliberato di acquistare della polvere da sparo per caricare dei piccoli mortai da attivare per una festa che si preannunciava pirotecnica.  

Tutto bene dunque, se non che, qualche riga dopo, il rapporto che racconta dell’arrivo in paese di don Elvio annota anche che il conte Trapp si rifiuta di farsi carico di alcune spese della parrocchia. Dunque il nobiluomo, proprietario del vecchio rudere di Castel Beseno che domina sul borgo, aveva nominato il parroco ma non voleva pagare alcunché. In effetti, il conte probabilmente non se la passava bene dal punto di vista economico, visto lo stato di abbandono del castello. Nel 1907 ci sono già dunque due attori che ruotano attorno a don Elvio: il conte e il comune. Con entrambi i rapporti partono bene, ma negli anni successivi qualcosa si incrina nel mondo attorno al parroco, e non a causa della guerra. Don Elvio è un intraprendente e questa sua caratteristica non piace a tutti. Dunque, perché è stato arrestato? Purtroppo il sistema con cui avvengono questi arresti, chiamati internamenti, è noto: se lasci intendere di parteggiare per l’Italia, per il nemico, vieni internato. Se alimenti dubbi sulla tua fedeltà all’Imperatore, vieni internato. Se non fai niente di tutto questo, ma c’è qualcuno che proprio non ti sopporta, questo “giuda” ti denuncia sulla base di una semplice voce. “Il signor X ha pronunciato una frase contro la guerra!”. Uno scandalo. Il semplice sospetto che il signor X sia contrario alla guerra basta per farlo internare. E non si verifica in un secondo momento se l’accusa sia reale. Non si apre un processo nel quale ci si può difendere. Il signor X finisce prima in una lista nera e poi, molto probabilmente, viene arrestato e internato. Don Elvio conosce bene tutto questo, ma non riesce a mettere a fuoco chi potrebbe averlo denunciato e, soprattutto, sulla base di quali elementi. 

Accantonati i pensieri sui suoi anni trascorsi a Besenello, almeno per il momento, il parroco cerca un sonno ristoratore tra le rigide assi del treno in cui è stipato. I primi tratti sono di difficile percorrenza, il rischio di bombardamenti italiani è sempre presente e angosciante. Sembra di vederlo, don Elvio, estirpato dalla sua comunità e diretto verso un luogo dove non può più nuocere, se mai avesse potuto essere pericoloso per qualcuno. 

I treni erano infiorati e imbandierati. Sulle macchine e sui carri a lettere cubitali si leggeva: Nach Rom, nach Meiland, nach Venedig [Per Roma, per Milano, per Venezia, NdA] e poi così come per galanteria cartelli con queste scritte: “Nieder mit Italien; Gott strafe England; Italien strafen wir. Abbasso l’Italia. Iddio punisca l’Inghilterra; l’Italia la puniamo noi”.

Avevano un po’ ragione perché se avessero aspettato che Iddio li avesse aiutati a castigare l’Italia, sarebbero lì ad aspettare ancora.

Ho fatto conoscenza, e quanto presto, con la fame. A Woergel una gamella d’orzo. Dalle vestigia e dall’odore vi doveva star aggiunta anche della carne che non giunse però fino a noi. Poi per ore e ore lungo il corso della Salza e valle Pongau ci annoiammo mortalmente e finalmente arrivammo a Salisburgo. Fatti scendere ci si ammucchia sotto una tettoia. Non potevamo uscire ma potemmo avere del pane e della birra dalle compiacenti chellerine [cameriere, NdA] di una birreria là di fronte. C’è un proverbio: Chi ha fame non ha sonno e noi acchetato in qualche modo lo stomaco sentivamo prepotente il bisogno di dormire, dopo tre notti quasi insonni; il disagio non ce lo permette.

Intanto attendiamo indifferenti […]; a nulla infatti ci gioverebbe avere una volontà. A certa ora ci tolgono di lì e ci conducono al treno che manovra fuori della stazione. Erano carri per animali, 8 cavalli e 40 uomini. A scelta. Un’assicella serve di scala. I primi che entrano trovano da sedersi, gli altri dovranno star in piedi o mettersi coccoloni in mezzo e per colmo si doveva scomodarsi brancicando nel buio e passar tutta la notte senza il conforto della luce. Fisso in pensieri tristi stavo alla mia volta per ascendere, quando un caporale della scorta, mi tira per la veste e mi dice piano: “Warten Sie nur” [aspetti un po’, NdA]. Quando furon dentro tutti chiuse lo sportello e venga con me lei, m’accompagnò in coda, ove erano alcune vetture di III classe bene illuminate e quasi quasi in quel momento e per l’atto gentile di quel soldato, mi pentivo di aver voluto sempre poco bene ai tedeschi. […] Scontai però quella piccola fortuna col dover assistere ad una scena pietosa. Un povero impiegato postale, forse per circostanze particolari, certo profondamente impressionato per l’arresto inopinato, per l’abbandono della famiglia, per la perdita dell’impiego e conseguente completa rovina materiale e morale, nonché per la fame ed il trattamento inumano, il fatto sta che n’ebbe sconvolto il cervello e uscì in segni manifesti di pazzia. Piangendo e a volta a volta reagendo energicamente, protestava la sua innocenza, il dovere fedelmente compiuto e tutto ciò rivolto a noi come se noi fossimo la causa dei suoi guai, o impietositi delle sue lagrime, potessimo liberarlo. Nella sua mente ammalata, in quelle circostanze di tempo e di luogo, forse intuì il bisogno di gridarci le sue ragioni, se così dir si può di chi sragiona, in lingua tedesca e, come ritornello obbligato, andava intervallando l’epifonema: “Ich bin Kein Moerder” [non sono un assassino, NdA]. Cercavamo di calmarlo, promettendogli di liberarlo appena giunti a Linz ma egli voleva esserlo subito e a buon conto. [Dopo quel momento di eccitazione], cadde in un profondo abbattimento conservandosi quieto e silenzioso fino a destinazione”.

 

Don Apolloni, prima, e don Elvio, poi, giungono quindi nel famigerato campo di Katzenau, nei pressi di Linz. Raccontato in una manciata di righe sembra un viaggio di poco conto, ma ancora oggi se si sale in auto percorrendo una moderna autostrada si impiegano circa sette o otto ore dal confine italo-austriaco. Un secolo fa la tratta era oltremodo lunga e monotona e richiedeva diversi giorni di viaggio. La strada più veloce corre oggi lungo una larga valle immersa tra boschi e montagne, con qualche paesino qui e lì, e fa una certa impressione immaginare che del grande e potente Impero austro-ungarico di un secolo fa sia rimasta solo quell’estensione quasi anonima da sud a nord, tra l’Italia e la Repubblica Ceca.

Il percorso per arrivare è tortuoso, si snoda da una montagna all’altra, ma dopo un’ennesima curva ecco aprirsi un territorio pianeggiante dove si scorge il Danubio e una grande città. È Linz.

Ormai qualunque fosse la meta e la sorte che ci aspettava, non vedevamo l’ora che quel viaggio penoso avesse fine una volta. Non si sapeva però ancora precisamente qual era questa meta. Qualcheduno parlava di Linz per averlo sentito dire non si sa da chi. Ai primi albori, era il 27 maggio, via via lontano, scorgemmo un chiarore indistinto che poteva essere anche il riflesso di una grande città illuminata. […] Era Linz, la capitale dell’Austria superiore. Il treno rallenta e si ferma e, vedete fortuna di chi viaggia nelle nostre condizioni, nessuno teme di sbagliar treno, coincidenze e destinazione, c’era chi pensava a tutto ciò. Naturalmente queste considerazioni le faccio adesso alla distanza giù per su di ventidue anni, allora le freddure erano più stentate. Ci si fa scendere e ci conducono in un locale tetro semioscuro annesso alla stazione e ci si dà ancora un caffè, fatto in serie come tutti i ricevuti e che riceveremo. Un’altra constatazione, dovetti fare ancora una volta che noi italiani siamo nati fatti per andar d’accordo coi tedeschi, alla rovescia; noi avevamo fame ed essi ci danno da bere… Attraversando la città siamo fatti segno a dimostrazioni di simpatia per parte di qualche linzese mattiniero. Occhiate assassine e manifestazioni di favore come queste: “Sieh da, sieh da unsere Irredentisten. Nuraufhangen” [Guardateli, guardateli i nostri irredentisti; impicchiamoli, NdA]. Grazie del complimento.

Usciti di città ci si infila in una strada di campagna; si affondava nella polvere che sollevata accecava e toglieva il respiro. Se cerchiamo nel vocabolario che cosa significa la parola internare, troviamo che essa significa: Relegare e costringere persone nell’interno del paese, lontano dai confini o dai luoghi dove possono nuocere. Logicamente quindi noi, considerati dall’Austria pericolosi al nesso dell’impero avremmo dovuto essere colà esser portati fuori e sotto certe restrizioni, lasciati vivere e circolare liberamente. La vista delle baracche mi richiamò alla realtà dei fatti. Ebbi una stretta al cuor. Intravidi i disagi della vita in comune, gli inconvenienti del dormire ag[g]lomerati nello stesso ambiente fra gente, pur affratellata dalla sventura, di gusti di abitudini differenti. Fino al momento dell’arresto, lo spauracchio delle baracche mi accompagnò sempre tormentandomi come una spina fitta nelle carni vive, oltre che per i motivi accennati specialmente, per il pericolo non immaginario e vano, ma incombente delle malattie infettive. Tanto più che proprio a Linz e in quelle baracche nell’autunno antecedente aveva infuriato e mietute infinite vittime fra il militare e i prigionieri russi, il tifo esantematico a cui sono maggiormente esposte le persone che vivono in cattive condizioni igieniche esposte alla miseria e alla fame. E qui mi viene quasi un dubbio[…]; m’è venuto, dico il cattivo pensiero che i nostri signori padroni avessero fatto alleanza con i morbi contagiosi per disfarsi dei nemici interni, come la fecero coi Turchi per debellare i nemici esterni, che per un Imperatore apostolico, non c’è male!”.

I nostri parroci arrivano dunque nel tanto temuto campo di Katzenau. È un agglomerato di baracche di legno che ospitano migliaia di persone, prigionieri politici soprattutto. Donne, uomini, sacerdoti, anziani, tutti accomunati dal sospetto di non essere fedeli all’Imperatore e alla causa della guerra. Il campo è costruito su un’ansa secca del Danubio, che ben presto si impantanerà con le piogge autunnali. Oggi di quella struttura non resta niente, tranne qualche foto che lascia di stucco. A prima vista sembra di vedere Auschwitz: tante baracche, un grande spazio recintato, molte persone recluse. Ma a ben guardare si nota qualcosa di strano. Gente che gioca a carte. La celebrazione della messa. Persone che chiacchierano tranquillamente. È un clima surreale, un misto tra una sorta di macabro Grande Fratello e una prigione. È un non luogo, un posto dove il tempo, la legge, il diritto e i diritti sono sospesi, ma non così tanto da ridurre le persone a numeri. Anzi. I loro nomi sono scrupolosamente annotati in elenchi che vengono compilati ripetutamente, al punto che oggi ne esistono varie copie, solo in parte sovrapponibili. I veri nemici, dentro al campo, non sono però le guardie o la mancanza di libertà, che pure angosciano e tormentano i reclusi. La preoccupazione di tutti è per il sovraffollamento e per le malattie che circolano e mietono vittime su vittime, come ricorda don Apolloni nel suo diario. 

Ma quanto dovranno restare lì, gli internati? Forse non è il caso di farsi troppe domande e di accettare la situazione. Pare, gira voce, che se ci fosse un vero processo nei loro confronti l’eventuale pena potrebbe essere anche peggiore dell’internamento, che, in fin dei conti, è solo una misura cautelativa. Ma il senso di incertezza e precarietà alla lunga diventa logorante. Le due parole pronunciate dai gendarmi che li hanno arrestati, cosa sono? Un avviso? Una comunicazione che probabilmente non rivedranno più la loro parrocchia? Dovrebbero avere perlomeno la possibilità di difendersi, dimostrare che sono innocenti. Ma niente di tutto questo è possibile. 

Don Apolloni e don Elvio entrano in quella terra di nessuno. Li pervade un senso di spaesamento e di isolamento che non è solo fisico, per le recinzioni che delimitano il campo dal territorio circostante, ma anche mentale. Katzenau è una specie di Stato nello Stato, dove l’unica legge è quella che non esiste legge, dove le persone sono separate dal resto del mondo perché il fardello che grava sulle loro teste, quello di essere degli infedeli, ha eliminato il diritto alla cittadinanza. I burocrati del campo, dopo un primo tempo, hanno perlomeno l’accortezza di mettere tutti i religiosi nella stessa baracca, anche se non subito.

[…] Fra i primi scorsi il carissimo dott. Guella. Chiesi con trepidazione come stesse e come si trovasse. Un singhiozzo gli fece un nodo alla gola e due grosse lacrime rigarono quel volto da galantuomo. Rimasi male e pensavo: se un tale anteo [epiteto dal gigante Anteo, NdA] è così fiaccato, cosa sarà mai di me! […].

Intanto […] quei butteri spingevano avanti noi, mandria umana con l’angelica grazia del loro linguaggio, con pugni, fianconate e coi calci dei fucili, e arrivammo alla baracca che ci era destinata, la 24. Era l’arca di Noè. Vi erano stipati operai, donne, vecchi, bambini di tutte le regioni d’Italia. I regnicoli erano certo duecento, quasi altrettanti noi e tutti in una baracca. A noi era riservata solo una parte della stessa, quella a settentrione e per incominciare, niente letto, niente paglia e niente coperte e una sporcizia ributtante. Noi di Pieve di Bono, per non disperderci, prendemmo possesso di un tratto di quell’impiantito [una sorta di pavimento, NdA], collocandoci le nostre valigie e gli ombrelli, poi sedemmo […] su di una trave messa lì per contenere nel giaciglio la paglia che almeno ai soldati ed ai Russi non si negava. Nessuno aveva voglia di parlare, mutismo perfetto. Tanto per far qualcosa, prendo il mio breviario per incominciare la recita ma lo tento invano perché la testa è assente e gli occhi stanchi e pesti devono rincorrere le parole che scappano e svaniscono come se giocassero a rimpiattino. Per mia esperienza compresi allora che il proverbio popolare: orbo per la fame, non è un semplice modo di dire. Un altro incubo che mi tormentava, fino dall’arresto, è in rapporto diretto con la vita di baracca, era la paura dei parassiti di quelle bestioline che in tempo di guerra brulicavano nelle trincee, nelle caserme e un po’ dapertutto e che i soldati affamati dovevano nutrire a sue spese. Guardando quella moltitudine polimorfa, le assi luride di quel pavimento così mal connesso, veniva spontanea la convinzione che sotto e sopra ve ne doveva essere di ogni qualità e razza, e già me li sentivo prurire addosso. E c’era di peggio. Si sa che una specie di questi pidocchi oltre che fastidiosi, sono causa di una malattia che dal nome greco della gentil bestiola si chiama ftiriasi, spesso mortale. Di tal malattia morirono personaggi celebri nella storia tra cui: Antioco Epifane, tiranno pazzo e crudele, Erode il grande, quello della strage degli innocenti ed il famigerato Filippo II, famosi tutti per le loro crudeltà. Dunque, caro e gentile animaletto, tu che sei il castigatore dei crudeli e che vivi nella intimità dell’uomo e ne conosci i segreti, sai già, chi devi colpire e lascia stare noi.

Le porte alle due estremità della nostra baracca sono custodite da picchetti di soldati armati di schiopettoni con tanto di baionetta in canna che forse potevano esser lì come guardia d’onore. Noi però ne avremmo fatto senza volentieri […]. Vediamo invece di buon occhio un’altra squadra che viene a distribuire a noi, ultimi venuti, la gavetta e la posata, segno che almeno l’intenzione di darci da mangiare c’è.

Per ingannare il tempo e la fame vogliamo far esperimento, di quei Minossi che stavano orribilmente sulle porte, ci permettono di metter fuori il naso. Visto che le guardie non hanno nulla da dire ci scostiamo un po’ dal luogo. Katzenau, etimologicamente, può tradursi: ischia dei gatti [“isola” dei gatti, NdA]. È una spianata formata da terreno alluvionato, forse l’antico letto del Danubio, o certo, il luogo ove il fiume, prima che fosse anche lui internato nel suo alveo, faceva le sue scorribande. In tempo arido quella terra sottile, appena mossa dal piede o levigata dal vento si trasformava in polverone asfissiante, quando era pioggia o neve in fango che arrivava alle caviglie. Per ovviare in parte a quelli inconvenienti, s’era provveduto, s’intende quando l’accampamento serviva ad altri scopi, non quindi per noi precisamente, a porre elevati un po’ da terra, dei comodi camminamenti di tavole larghi circa un metro […] Siamo quindi in tutta vicinanza del gran fiume, ne vediamo gli alti argini, fra le piante vediamo passare ogni giorno navi numerosissime; il Danubio però non lo vidi mai in diciotto mesi che passai nel campo. 

[…] A mezzogiorno [a sud, NdA] era Linz, intravveduta appena per il suo castello le torri ed i campanili. Da sera a mattina, in grande arco, lambite ai piedi dal fiume si estende una corona di magnifiche colline, digradanti in dolce declivio e costellate di ville nascoste in superba vegetazione. Imponente fra tutte il Petrineum, seminario diocesano. Sulla più alta di tali colline sorge suggestivo il santuario di Poestimblerg, meta per i linzesi di pii pellegrinaggi e di gite di piacere [… ]. Il paesaggio è bello e superbo topograficamente, per il suo verde cupo, scuro, affatto mancante di policromia non è esteticamente attraente. L’orizzonte è vasto, i tramonti incantevoli, non c’è che dire, ma i nostri monti, il nostro cielo azzurro, il bel sole d’Italia non sono sostituibili.

Il posto di internamento si stendeva per circa un km da mattina a sera e per circa 800 m da sud a nord comprendeva circa un centinaio di baracche. Noi da principio ne stipavamo otto, pigiati come le sardelle. Tutte le altre erano occupate da soldati. Un grande reticolato tutt’ingiro guardato da ben quaranta sentinelle. L’interno era frazionato da altri reticolati e il tutto dava l’impressione di un gran pollaio o anche di un enorme paretaio in cui noi figuravamo da merli incappati nella ragna [ragnatela, NdA]. Un personaggio di primo piano e, per noi, arbitro di vita e di morte era Buffalo Bill un gigante che si diceva avesse girato come saltimbanco nei circhi da fiera e perfino come domatore di belve; se lo avessero mangiato!”.

Sembra davvero strano che di questo posto incredibile (nel senso negativo del termine) don Elvio non abbia scritto niente. Ma un motivo c’è, e sta per scoprirlo. Un inaspettato colpo di fortuna lo attende non appena mette piede nel campo. La stessa fortuna che invece non capita a don Apolloni, alle prese con la distribuzione dei pasti:

[…] Una buona mezz’ora prima del tempo destinato alla distribuzione del pasto ci s’assiepa attorno alla baracca cucina per essere i primi serviti e, forse, per non restare a bocca asciutta. A buon conto andiamo anche noi a prendere la gavetta e ci mettiamo in coda. Finalmente s’incomincia la distribuzione. Mamma mia qual baraonda! Erano duemila persone e forse più che s’urtavano, vociavano, lavoravano di gomiti e cercavano tutti di sovverchiarsi e di sorpassarsi. In quelle circostanze sarebbe stata pretesa fuor di posto la calma e l’educazione. Era la lotta per l’esistenza che giustificava la violenza. I più robusti e risoluti a forza si aprono un varco, raggiungono la cucina, son serviti, escono da un’altra porta divorano trionfalmente la minestra, più saporita ancora perché conquistata con tanta fatica. Di fronte a giovani a operai validi di braccia e di animo che cosa possiamo far noi? Vista la mala parata e il pericolo di restar senza, perché molti andavano la seconda e la terza volta, misi in disparte i riguardi e mettendo in opera i sistemi altrui, forse aiutato un po’ anche dalla talare, con quattro vigorose bracciate fui dentro e servito. Consegnai la gavetta al sig. Botteri che ormai disperava di potersi salvare, lo inviai in baracca a mangiarsela, presi la sua vuota e in men che non si dica ripetendo la stessa manovra lo raggiunsi anch’io, felici come ci si contenta di poco, di ingoiare quella brodaccia [im]mangiabile che pure ad ogni cucchiaiata sembrava farci riavere.

Che così non poteva andare ognuno lo capiva e lo capì anche Buffalo Bill. Il giorno seguente venne con le tessere e allora la distribuzione diventa meno tumultuosa. Le porzioni però sono sempre insufficienti per quantità e schifose per qualità. Ecco la minuta dei nostri pasti durante quel primo periodo della cura. La mattina immancabilmente caffè, chiamiamolo pure così a costo di mentire. A mezzogiorno mezza gavetta di riso o di orzo poco condito o affatto. Due volte in settimana ci si pescava qualche traccia di carne nera coriacea che ad attribuirla a quell’animale che è il simbolo della pazienza [forse il riferimento è al bue, NdA], gli si farebbe forse torto. A sera, quando a pranzo, lo chiamo così perché è il pasto principale della giornata, ci fu carne, si riceveva solo quella cosa che abbiam chiamato caffè, se no un’altra volta minestra. Sopra tutto questo una misera pagnottella di forse 300 grammi che doveva servire per tre pasti ma che ordinariamente spariva tutta ancora al primo. Se non fosse anacronistico si potrebbe pensare che Rabelais ebbe qui l’ispirazione di creare il suo Gargantua.

[…] Lascio in disparte la fame. La rivedremo ancora e rientriamo in baracca. Soddisfatto ai miei doveri di sacerdote, bisognerà pur pensare a coricarsi per un po’ di riposo. Passare dagli agi e comodità della nostra stanzetta a quelle assi coperte di pattume è cosa che provoca una ripugnanza insuperabile eppure vincere bisogna. […] Avvolto testa e vita nella mantellona, la valigia per cuscino, in mezzo agli amici e ai compagni di sventura di Pieve di Bono, pigiati l’uno all’altro come sardelle nel barile, pur disturbato da quella moltitudine di gente acconzata [probabilmente intende acconciata, sistemata, NdA] che cercava di fare i propri comodi a spese altrui, chiusi gli occhi e il sonno invocato e ristoratore venne finalmente, mi tolse alla dura realtà e mi portò nel regno dei sogni.

Nei primissimi tempi, a Katzenau mancava ogni organizzazione e per fino un dirigente. Eravamo alla mercé dei militari e di Buffalo Bill, quelli per tormentarci e questo per sfruttarci speculando sulla nostra fame. Un po’ alla volta le cose migliorarono alquanto. Dopo circa una settimana ci diedero un po’ di paglia e fu un piccolo beneficio per le nostre vive costole rotte e dolenti. Il barone Gustav Reicher fece da principio una breve apparizione ed era indicato e conosciuto “per quello dalle braghe bianche”, poi scomparve chiamato forse a Vienna a prendere gli ordini ed imparare come si dovevano trattare i traditori della patria. Intanto lo sostituiva certo Neboj, con attribuzioni ben limitate. Era un uomo insicuro, sempre impacciato e si faceva vedere raramente perché non sapeva dir di no e non poteva dir di sì. Un vero travetto, inutile ingombro di qualche ufficio. Pure per suo interessamento, noi sacerdoti abbiamo avuto dei favori segnalati. Prima dunque la paglia che i giacigli, poi una coperta per ciascheduno e poi ci mise a disposizione una piccola baracca. “La baracca dei preti”. Eravamo una quindicina e cresceremo poi a circa quaranta. Intanto la curia di Linz per mezzo di monsignor Lokringer ci procurò biancheria e suppellettili per la celebrazione della Messa. La prima volta abbiamo celebrato il 30 maggio festa della s.s. Trinità. Solo chi è sacerdote può comprendere con quale e quanta commozione riprendemmo la celebrazione del Divin Sacrificio dopo la forzata interruzione di una settimana. Un portico avanti l’ingresso della nostra baracca ci serviva da chiesa e lì all’aperto i devoti venivano frequenti ad ascoltare la Messa”.

Come ben ricorda don Apolloni, a capo del campo troneggia il barone Gustav Reicher, anche se per qualche tempo viene sostituito da un insignificante aiutante chiamato Neboj. Non ha l’aria cattiva, il barone. Una foto lo raffigura come un uomo di mezza età, sui 45, appena stempiato ma con i capelli nerissimi in perfetto ordine, leccati all’indietro. Giacca grigio scuro, camicia bianca con colletto alto, è ricurvo sulla scrivania con un pennino in mano. Alla sua destra una pila di carte, a sinistra un ingombrante telefono mentre sullo sfondo è appesa una grande carta della quale non si leggono le scritte. Ha l’aria affaccendata, e non ricorda affatto i kapò nazisti ritratti da Spielberg in Schindler’s List. L’11 giugno 1915 (prima dell’arrivo di don Elvio ma dopo l’ingresso di don Apolloni) Reicher scrive una relazione diretta al luogotenente del Tirolo e Vorarlberg:

 

Insieme alla mancanza di vegetazione questo fa sì che ci sia un caldo addirittura tragico nella zona del campo e ancor più nelle baracche. […] La vita degli internati fu sino ad ora molto modesta. Molti non possedevano ancora un saccone e dovevano dormire sulla pura paglia. Al mattino veniva dato caffè con un pezzo di pane, a mezzogiorno minestra con un pezzetto di carne due volte la settimana, alla sera di nuovo minestra o caffè”.

Nelle prime note il barone appare scrupoloso e preoccupato delle condizioni di vita del campo. Teniamo a mente questo aspetto, la preoccupazione per gli internati, perché sarà determinante nella vicenda di don Elvio. 

Che fare dunque per il caldo? Reicher propone di piantare una fila di alberi per portare un po’ di ombra agli accaldati ospiti. Pensa anche, e lo realizza, di migliorare la questione del vitto dando la possibilità agli internati di farsi da mangiare da soli. Fornisce loro una corona al giorno, con la quale acquistare nel negozio del campo i generi alimentari preferiti. Peccato che gli internati particolarmente abbienti non possano comprare i cibi che sono abituati a mangiare. Ma ecco la soluzione: una convenzione con un ristorante vicino per portare, diciamo a domicilio, pranzi e cene già pronte. Altro che app di consegne! Nel campo non ci sono agitazioni, la vita scorre tranquilla, anche se le guardie a volte si lasciano prendere troppo la mano. Lo lamenta persino il barone Reicher, rilevando però la sua impossibilità di invitarli ad un comportamento più mite. Per il resto Katzenau è una vera e propria città che richiede un’amministrazione efficiente, a cui deve naturalmente pensare il barone. Esiste un commercio interno per un giro d’affari di 120.000 corone al mese. C’è un servizio postale, dove arrivano ogni giorno 30 pacchi, 40 vaglia postali con 600 corone e 800 lettere e cartoline. Vengono costruiti un ospedale e una chiesa, funzionanti e attivi. In qualche caso si può anche uscire, sotto scorta, per andare a lavorare in città. 

All’inizio sembrano evitate le malattie infettive, ma quella condizione di prigionia anomala, quella vita da reclusi in una città senza uscita, in uno Stato nello Stato, a qualcuno pesa più che ad altri ed ecco verificarsi i primi casi di malattia mentale. Chi non riesce a mantenere un equilibrio psichico viene portato in ospedale, ma non si fa in tempo per tutti: Reicher rileva un tentativo di suicidio ed uno riuscito, ma forse, annota il barone, c’era già una “predisposizione per natura alla depressione”. Aggravata dal campo, sottinteso. 

Dopo le prime settimane le cose sembrano sistemarsi, più per l’operosità e l’ingegno degli internati che per l’impegno dei carcerieri. Tutto appare funzionante: ospedale, chiesa, mensa, negozi, una scuola ecc. Quello che però è dannatamente irrimediabile è la noia. Può sembrare una follia parlare di noia in quelle circostanze ma è proprio così. Cosa fanno per tutto il tempo gli internati? Una volta che hanno provveduto ai loro bisogni personali, in cosa vengono occupati? Non siamo ancora (per fortuna) nei lager nazisti dove i prigionieri sono costretti a lavorare fino all’esaurimento delle forze. Il campo di Katzenau è sì una forma di privazione di libertà, terribile, ma non punta allo sterminio. La punizione è preventiva: se qualcuno è ritenuto pericoloso viene messo in una specie di quarantena in modo che con le proprie (presunte) idee sovversive non possa nuocere, non possa fomentare altri a pensarla come lui. E si sa, in quarantena, quanto sia dura far passare il tempo. Reicher a questo proposito scrive: “Molti della classe più bassa sono ora naturalmente occupati come operai, ma tutti gli altri sono senza un lavoro, giocano tutto il giorno a carte, sono resi scontenti dall’inoperosità, e generano soltanto irrequietezza. Ancora peggiore si presenta il problema fra le persone istruite, che sono tutte senza un’occupazione ad eccezione di alcuni che lavorano per l’amministrazione”.

L’ingegnoso Reicher organizza così dei corsi di francese, tedesco e costituisce una banda musicale. Dopodiché i suoi rapporti cessano: della sua attività non sappiamo più nulla, tranne quello che scriveranno gli internati. E dell’atmosfera ludica, quasi vacanziera dei primi tempi, resta molto poco. I controlli si fanno più serrati. Il cibo diventa più scarso e immangiabile (del resto, è così in tutto l’Impero). Le voci che provengono dal campo iniziano ad essere sempre più inquietanti, ma, fatto strano, non concordanti. Alcune lamentano un clima di terrore che richiama quello dei futuri campi nazisti; altre riportano i soliti problemi come il cibo e il sovraffollamento, ma senza troppa enfasi. Lo stesso dicasi per il barone Reicher. Cinico e spietato o mite funzionario che cerca di risolvere i problemi come può? Chi dice il vero? 

Di certo non è una bella situazione, e per far valere le proprie ragioni conviene dipingere il nemico come un mostro inumano. Per gli internati il nemico è l’Austria che li ha imprigionati, quindi anche una descrizione un po’ colorita e caricaturale di Reicher e del campo può essere utile per dar valore alle proprie rimostranze. Comunque, sempre di un campo di prigionia si tratta, e non è un bel vivere.

Nel novembre 1915 don Apolloni è ancora internato quando arriva nella baracca destinata ai parroci anche don Elvio. È il 17 del mese, l’ingresso è annotato scrupolosamente nel diario di un altro internato, Francesco Gottardi. Il parroco di Besenello ha dunque impiegato dodici giorni per arrivare al campo, per percorrere un tragitto che oggi, in auto, richiederebbe solo qualche ora! 

Nel frattempo l’autunno è arrivato e con esso il campo si trasforma rapidamente prima in un pantano e poi, già da metà novembre, in una distesa di neve. Imperversano malanni ed epidemie, complice anche il sovraffollamento per il quale si fatica a trovare una soluzione. E forse proprio a causa di uno di questi problemi, il sovraffollamento, Reicher decide di trasferire già dal 18 novembre una parte dei parroci trentini all’abbazia dei Padri Agostiniani di Reichersberg, poco lontano da Katzenau. Per don Elvio, così come per gli altri sacerdoti, è un colpo di fortuna. La permanenza nel campo è durata solo 24 ore!

Anche se la libertà non è ancora conquistata, perlomeno i parroci che vengono trasferiti si risparmieranno le asprezze del campo di internamento e potranno approdare in un luogo di culto più consono al loro ruolo. Quel 18 novembre venti religiosi partono quindi da Katzenau, scortati dalla gendarmeria, e fanno il loro ingresso nell’antica abbazia di Reichersberg. La decisione su chi deve partire e chi no è accesa tra i sacerdoti stessi, come ricorda Gottardi nelle sue memorie. Un certo don Lino è tra i fortunati che riescono a spuntarla, ma non parte a cuor leggero: 

È in preda a nuove melanconie. Mi prega di dire a sua zia Irene, se egli non la vedesse più, che si porti a casa sua (di lui) a Vervò, che faccia colla famiglia un contratto di vitalizio. Suo fratello Alfonso non si sa come ritornerebbe dalla prigionia di guerra in Russia, l’altro essere poco adatto per affari, il padre già vecchio e quindi un aiuto [sarebbe] assai desiderabile. Anche di sua sorella Virginia, sposata Pasolli ei prega me e Bertoluzza di interessarci se essa ne avesse bisogno. Io gli scaccio i pensieri tristi e lo incoraggio a sperare presta liberazione e felice ritorno in patria. I preti in partenza danno a sera una bicchierata e mi ringraziano […]”. 

Così scrive ancora Gottardi nelle sue memorie.

È l’inizio di un periodo migliore, ma neanche tanto a sentire le voci che qualche tempo dopo raggiungono il campo: 

Da Reichersberg notizie che non vi si trovano tanto bene. Così l’egoismo ebbe il dovuto premio! [Quando “Barba Zan” assiepava la vigna e la chiudeva a “Vin” o “Cogol”: 

“Maggiore aperta molte volte impruna

Con una forcatella di sue spine

L’uom de la villa quando l’uva imbruna.”

(Purgatorio – IV.18)

Quando l’uva sta per maturare, spesso il contadino ostruisce con una forcata di pruni spinosi un’eventuale piccola apertura.

Il commento di Gottardi è letteralmente pungente: sembra godere del fatto che neanche in abbazia i sacerdoti si trovino bene. Avete voluto andarvene? Ben vi sta. Ma come stanno davvero i preti a Reichersberg? E quanto dura il loro “soggiorno”? Don Elvio condivide le stesse preoccupazioni degli altri religiosi, ma a differenza loro ha un cruccio in più. Parlando con i colleghi, si è scoperto che qualcuno è per davvero irredentista, cioè parteggia sul serio per l’Italia. C’è poco da lamentarsi, quindi, se questi sono finiti agli arresti. Altri, invece, avevano manifestato critiche nei confronti della guerra e delle sue conseguenze. Ma esprimere perplessità nei confronti della guerra non andava fatto: la guerra, secondo la propaganda austriaca, è giusta, perché chi attacca è l’Italia e l’Austria non può che difendersi. Fine del discorso. Chi non è d’accordo va allontanato, come puntualmente accade.

Don Elvio, invece, pur ascoltando con interesse il punto di vista dei religiosi, continua a chiedersi che cosa possa aver combinato di così grave da condividere la loro stessa sorte. Non è un irredentista. Non si è espresso contro la guerra. Non ha parlato male dell’Imperatore. E dunque perché è lì? Il motivo si scoprirà, ma di acqua sotto i ponti ne deve passare ancora molta anche se, “solo” un anno dopo, accadrà un evento che cambierà il corso della storia (e anche la vicenda di don Elvio).

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