Il coraggio del Cammino capitolo 1

Il coraggio del Cammino di Diego ParoloIl cigolio dei letti a castello, qualche leggero ciabattare, mi fanno aprire gli occhi. No, non perché dormissi, anzi il mio dormire è finito da qualche ora ma tenevo gli occhi chiusi per non vedere il non passare del tempo, nell’illusione di fare qualche sonnellino e che così l’attesa fosse meno penosa e snervante.
Ora finalmente posso aprirli perché questi rumori, che nei prossimi giorni e per tutta la durata di questa mia avventura diventeranno familiari, indicano che è ora di alzarsi, di prepararsi, insomma di uscire e cominciare a camminare. C’è un detto che più o meno fa così: «Il leone si sveglia e si mette a correre, insegue la gazzella; la gazzella si sveglia e inizia a correre per scappare dal leone».
Anche noi umani camminiamo e corriamo. La differenza tra noi e il leone, noi e la gazzella, è tutta nel nostro chiederci: perché?

Camminare. Il Cammino con la C maiuscola evoca immediatamente, per i pellegrini, per i tanti che per i più disparati motivi decidono di “peregrinare”, di mettersi in cammino, il Cammino di Santiago. In particolare, il più conosciuto e frequentato: il Cammino Francese che da Saint-Jean-Pied-de-Port, un piccolo paese della Nuova Aquitania ai piedi dei Pirenei, nel versante francese, con una serie di tappe, attraversando da est a ovest le regioni spagnole della Navarra, della Rioja, della Castilla y León e infine della Galizia, portano il pellegrino alla cattedrale di Santiago de Compostela. Qui, secondo tradizione, sarebbe sepolto il corpo decapitato di San Giacomo apostolo, “il Maggiore”.

Esiste una molteplicità di cammini e pellegrinaggi in varie parti d’Europa e del mondo e tutti hanno in comune un aspetto che li identifica e per certi versi li rende uguali, assimilabili. Tutti possono essere riassunti da una parola, anzi da un verbo: camminare. Fare un pellegrinaggio significa innanzitutto predisporsi a camminare, vuol dire imitare un bisogno atavico dell’uomo che fin dalla sua comparsa sulla terra ha cominciato ad esplorarla, a muoversi in cerca di cibo, di un riparo, di un posto dove vivere.

Ma c’è una cosa che è forse la molla che più di ogni altra spinge l’uomo a muoversi e cercare: il suo bisogno di sapere, la conoscenza. Grandi esploratori sfidarono il mare aperto, scavalcarono montagne sconosciute spesso senza avere a disposizione strumenti adeguati e confidando principalmente sul loro istinto. Santoni, mistici e uomini di fede cominciarono a peregrinare con motivazioni legate alla percezione, che credo tutti abbiamo, di non essere solo materia ma che ci sia in noi qualcosa che va oltre la materia stessa, qualcosa che ci spinge a sentirci in cammino, un cammino di ricerca di ciò che siamo realmente e che ci fa emozionare, che fa nascere i sentimenti che animano il nostro vivere, cose immateriali ma che sentiamo appartenerci, essere parte di noi. Un bisogno di spiritualità, legato al mondo delle idee – come insegnano i filosofi fin dall’antichità – all’immaginario e alle credenze. 

L’uomo ha sempre sentito il bisogno di credere in qualcosa di soprannaturale a cui attaccarsi per dare un senso a tutto quello che lo circonda, a ciò che non riesce a giustificare con la sola ragione. Nascevano così i cammini a sfondo religioso e successivamente quelli legati alla Sacra Scrittura, pellegrinaggi in luoghi che evocano la vita di personaggi innervati nella storia delle religioni, che ne custodiscono scritti, vestigia o, come nel caso di Santiago, i resti mortali. Questi pellegrini si mettevano in viaggio con quello che avevano, qualcosa per coprirsi e ripararsi dalle intemperie, spesso con calzari di fortuna se non addirittura a piedi nudi, una bisaccia contenente poche ed essenziali cose, un bastone come compagno e sostegno, e andavano attraverso (per) i campi (ager): da qui il termine pellegrino. Partivano affidandosi alla provvidenza, confidando innanzitutto nell’aiuto di quegli Dei o di quel Dio che li spingeva a mettersi in cammino e nel fatto che avrebbero trovato lungo il tragitto delle anime buone in grado di offrire loro un riparo per la notte e un pezzo di pane per sfamarsi. Mendicando.

Si cominciò a camminare fidando e orientandosi con le stelle per cercare la direzione; si tracciarono sentieri, percorsi, che un po’ alla volta si sono perfezionati e arricchiti di tracce e impronte che oggi facilitano il cammino dei pellegrini. Ma cosa vuol dire camminare, cosa significa? E perché camminare? Abbiamo ancora bisogno, la sentiamo la necessità di camminare? Di fare fatica a imitazione di quei primi pellegrini? E se sì, perché? E perché oggi, che la tecnologia e la scienza permettono di muoverci velocemente e senza fatica da un posto all’altro – ieri alle quattro del mattino ero a Carceri in provincia di Padova, in Italia, e alle tre del pomeriggio ero già a Pamplona, in Spagna, essendomi fermato anche a Madrid a prendere un caffè?

A queste domande tenterò di rispondere pellegrinando verso Santiago. Anche se oggi il mio pellegrinare sarà molto diverso da quello di quei primi camminatori, se ho a disposizione delle scarpe, uno zaino costruito per essere meno ingombrante possibile, ho dei posti sicuri dove poter riposare e non rischio di incontrare ed essere pestato e derubato da bande di briganti, lo spirito, quello che mi spinge a mettermi in cammino, credo sia molto simile se non lo stesso di chi mi ha preceduto; il vento, la pioggia, il sole, il freddo, la fatica saranno miei compagni di viaggio come lo furono per loro. Per certi versi mi sento di dire che le avversità naturali e la fatica fanno parte integrante di ciò che si cerca nel cammino, ci devono essere e devono essere sperimentate per poi poter dire a sé stessi di aver fatto veramente il Cammino.

Potrei rispondere molto semplicemente alla prima domanda dicendo che camminare è mettere un piede davanti all’altro, far seguire un passo al precedente, e lo stesso potrei fare per la seconda domanda dicendo che significa muoversi, spostarsi nello spazio. Naturalmente sono semplificazioni, ma se le prime due domande le mettiamo in relazione con la terza, e cioè perché camminiamo, allora il camminare acquista un significato diverso, ogni passo avrà una sua ragione. Diventa determinante lo spazio nel quale camminare, se sarà spazio fisico e cioè andare da un luogo a un altro, da un punto x a un punto y, uno spazio fuori di me materiale e tangibile ma che diventerà parte di me “camminando” e assimilando le suggestioni. Oppure uno spazio ideale dentro me stesso, una specie di introspezione per conoscermi, per conoscere i miei recessi, le mie parti nascoste persino, a volte, a me stesso.

L’ostello Jesus y Maria dove abbiamo trascorso la notte si trova proprio in centro a Pamplona, è una ex chiesa del XVII secolo. Il comune di Pamplona l’ha riadattata ad ostello riservato ai pellegrini. Molto vicino alla cattedrale, principale luogo di culto della città, è un posto molto bello e ben adattato, fornito di tutto quello che necessita al pellegrino senza modificarne o intaccarne l’architettura. Fa parte di una serie di strutture, chiamate anche Albergue, riservate ai pellegrini e cioè a chi è in possesso della credenziale che certifica la qualifica di “pellegrino”. Non ospitano turisti e vacanzieri, per capirci, per i quali in ogni caso esistono strutture private similari sparse un po’ dappertutto lungo il Cammino.

La credenziale, un libretto simile ad un passaporto rilasciato da vari istituti, religiosi e non, si compone di una parte iniziale con le generalità del pellegrino, il paese d’origine, il luogo e la data di partenza del pellegrinaggio, un numero di serie e il timbro dell’ente che la rilascia, e di una serie di pagine successive per i timbri. In queste pagine, alla fine di ogni tappa, l’hospitalero, colui che gestisce l’ostello, apporrà il sello che identifica il luogo e la data di transito, assieme alla sua firma. Questi timbri saranno la prova del percorso fatto e daranno diritto, una volta arrivati a Santiago, al rilascio della Compostela.

Non sono solo in questa mia avventura, mi accompagnano mio figlio Edoardo e sua moglie Francesca. Ci prepariamo cercando di far meno rumore possibile, facendo luce con la torcia del telefono, ce ne sono anche altre accese qui e là come lucciole nel buio, raggiungiamo i bagni cercando di non inciampare. Tornati alle brande, raccogliamo le nostre cose infilandole negli zaini, un ultimo giro con il fascio di luce per non lasciare niente sui letti e usciamo dirigendoci verso la cucina. In corridoio la luce è accesa, a terra è pieno di zaini, sulle sedie e sulle panche sistemate lungo il muro pellegrini che infilano e si sistemano le scarpe, altri in piedi che stanno mettendo lo zaino in spalla, altri ancora, i più mattinieri, stanno già uscendo e salutano nella propria lingua i presenti. Quella più usata è indubbiamente l’inglese. Molti, e io fra quelli, per comodità e perché è di facile apprendimento per tutti, salutano con l’espressione spagnola: “Ola”. Ciao. 

Raggiungiamo la cucina e ci prepariamo un caffè con delle bustine solubili che abbiamo precedentemente acquistato. Alcuni, pochi per la verità, fanno colazione a quell’ora, la maggior parte preferisce una cosa veloce tanto per carburare per poi fermarsi, dopo un paio d’ore e una decina di chilometri, per una pausa e la vera colazione. Una partenza senza caffè mi farebbe però camminare come una macchina ingolfata, non riuscirei a carburare, ad avere un buon rendimento.

Riempiamo le bottiglie di acqua, salutiamo e usciamo nella strada deserta di questa prima mattina spagnola. L’aria è fresca ed è buio, Pamplona dorme ancora, le frecce gialle e le conchiglie d’inciampo al centro del marciapiede ci guidano verso il centro della città. Di solito, quando si tratta di centri o luoghi di interesse culturale, chiese, palazzi o monumenti, chi traccia il percorso ha fatto in modo che i pellegrini vi passino accanto, magari allungando un po’ la strada ma consentendo almeno una visione, anche se veloce, delle cose più interessanti. In giro non c’è nessuno salvo altri pellegrini facilmente riconoscibili e che alla spicciolata, da soli o a piccoli gruppi, stanno uscendo dalla città.

Credo che quella in cui stiamo camminando sia una zona vietata al traffico delle macchine, solo qualche camion della nettezza urbana procede piano con degli spazzoloni rotanti attaccati ai lati della cabina. Le grosse spazzole scandagliano l’asfalto e convogliano tutto quel che trovano verso la bocca di un potente aspiratore che attrae e ingoia tutto. Sulla parte posteriore dello stesso camion, una serie di piccoli getti d’acqua completa il lavoro lavando la strada. Qualche netturbino precede il camion e, spazzando giù dai marciapiedi i resti di serate di spritz e pasti veloci fuori dei molti pub che costeggiano la via, li rende accessibili alle spazzole; l’uomo fa dei movimenti lenti, ripetuti e cadenzati, sembra quasi una danza e, siccome indossa uno strano giubbino con strisce fluorescenti, disegna involontariamente figure e schizzi nel buio.

Costeggiamo e penetriamo ampi parchi con alberi imponenti, popolati da moltitudini di uccelli che cinguettano senza farsi vedere, rimanendo rintanati tra le foglie. Sono cinguettii delicati, forse anche loro cercano di fare meno rumore possibile, vista l’ora mattutina. Alcuni merli, però, sono già al lavoro ed estraggono dalla terra, resa molle dagli irrigatori che spruzzano acqua sul prato, succosi lombrichi mentre le gazze e le cornacchie, approfittando dello scarsissimo traffico, lasciano i loro posatoi e si avventurano sulla strada a spolpare qualche carcassa di animale rimasto vittima del trambusto quotidiano del giorno prima.

Incontriamo e veniamo superati da ciclisti con tute sgargianti e biciclette ipertecnologiche, giovani in canottiera che corrono a piedi e isolati dal mondo dalle cuffiette che indossano infilate nelle orecchie. Alcuni sono visibilmente affaticati, grondano sudore e annaspano a bocca spalancata in cerca d’aria, e tuttavia insistono. Cominciamo ad incontrare anche qualche signore di mezza età che passeggia tranquillo, con il cane che gli scodinzola intorno. Su tutto regna un silenzio rumoroso fatto dei canti degli uccelli attutiti dal fogliame folto degli alberi, del lontano passaggio di un aereo che appare come un puntino seguito da una scia bianca sopra le nostre teste, di qualche serranda che si alza improvvisa nel centro ormai lontano della città. Abbiamo ancora le torce accese per non perdere le frecce gialle.

Mentre attraversiamo il ponte sul rio Sadar, superata anche la periferia, è ormai giorno e spegniamo le torce. Mi giro verso oriente, verso la città che abbiamo lasciato dietro di noi: tra le chiome dei grandi alberi che segnano l’orizzonte, l’alba si fa strada salendo dietro le colline e il sole, infilandosi tra i rami e le foglie, e sembra mangiarseli poco a poco per guadagnare il cielo e illuminare la terra.

Dormo poco la notte, credo sia una cosa che succede con l’età e alcuni amici confermano questa idea dicendo che più invecchi meno hai bisogno di dormire, boh. Comunque, a me da un po’ di tempo succede così e, indipendentemente dall’orario in cui mi metto a letto e quasi immediatamente mi addormento, verso le tre e mezza del mattino mi sveglio e non riesco più a dormire, se mi va bene faccio dei brevi sonnellini intermittenti e leggerissimi, una specie di dormiveglia, non saprei come spiegare. Ad ogni modo, quel poco che dormo mi basta e durante il giorno non ho problemi. Stamattina, però, ho addosso uno strano malessere, una specie di tensione, qualcosa che mi pesa qui alla bocca dello stomaco e che non riesco a mandar giù… ma nemmeno mi viene su. Sicuramente è qualcosa da mettere in relazione con questa avventura che desideravo da tanto e che ho tanto sognato, anche ad occhi aperti, e se a questo aggiungiamo il trambusto del viaggio il risultato è una sorta di stanchezza mentale che mi impedisce, anche adesso che sono ormai passate più di due ore da che camminiamo, di concentrarmi e godere di quel che sto facendo e vedendo.

Provo a canticchiare qualcosa a casaccio riuscendo però solo ad alleggerire parzialmente questo senso di indigesto malessere che mi attanaglia. È proprio il caso che facciamo una pausa, è il momento per sederci e con tranquillità gustarci una bella colazione. Siamo appena entrati in un paese dal nome impronunciabile: Zariquiegui. Più che un paese è un gruppetto di case che fanno da cornice ad una piccola chiesetta: si trova circa a metà della salita che ci porterà all’Alto del Perdon. Per curiosità chiedo al barista quanti sono gli abitanti di quel posto e lui mi dice che i residenti sono 178, uno più uno meno. Non è un bar come siamo abituati qui in Italia, è piuttosto come la bottega che c’era al mio paese quando ero bambino, dove il baratto era la forma di pagamento più utilizzata, anzi la moneta più usata erano le uova, con un uovo compravo il panino con la mortadella da mangiare durante la ricreazione a scuola. “El casolin” era un posto dove si trovava un po’ di tutto, dallo zucchero sfuso alle pezze di sapone, dalle scatolette di orzo e miscela per fare il caffè a casa nel pentolino, ai fiammiferi svedesi per accendere il fuoco, articoli di ferramenta e abbigliamento, frutta e perfino le sigarette sfuse che erano tenute nascoste da qualche parte in una confusione indescrivibile di merce. Ecco, anche questo bar, come ne troveremo molti sul Cammino, assomiglia molto a quella bottega del mio ricordo con in più tutti i gadget legati al Cammino: capesante, bandane con stampata l’immagine della cattedrale di Santiago, magliette, vari modelli di bastone da pellegrino e, naturalmente, le immancabili banane, sicuramente il frutto più consumato sul Cammino, forse per via del potassio.

Prendiamo due caffè con leche e un cappuccino che risulteranno pressoché uguali e che, in situazioni normali, dopo un primo assaggio, la bocca rifiuterebbe di sorbire: ma qui siamo pellegrini, siamo in Spagna, sulla Sierra, “fuori” dalla cosiddetta civiltà e va bene anche questa roba, anzi è perfino gradevole e buonissima questa sorta di acqua torbida, ce la sorseggiamo standocene seduti e rilassati. Da mangiare abbiamo preso un ottimo bocadillo con jamon de cerdo e un bel pezzo di tortilla de patatas, una frittatona alta tre/quattro centimetri, fatta con uova e patate. Se il cappuccino e i caffè lasciano a desiderare, il panino e la frittata sono invece decisamente eccellenti. 

La pausa si rivela veramente provvidenziale per la mia tensione, che sento sfumare fino a scomparire del tutto. Riesco finalmente e con calma a mettere a fuoco la situazione, una situazione insolita, almeno per me, ed è una cosa straordinaria, sicuramente la più inaspettata e bella novità che mi potesse accompagnare in questo cammino: camminare e stare insieme ai miei figli, non più bambini ma adulti, per quasi un mese tutti i giorni, ogni ora del giorno e della notte, condividendo emozioni, fatiche, gioie e pensieri, è una roba incredibile. Certo, è vero, si potrebbe pensare che sia normale, e forse per qualcuno lo è anche, stare con i figli, condividerne le emozioni; finché sono piccoli è anche facile parlare con loro. Di solito fino a quando un figlio raggiunge l’età dell’adolescenza il rapporto, il modo di porsi, il tono della voce, tendono a dare al dialogo un taglio catechistico, se così lo vogliamo definire, mirante all’addestramento, sicuramente in senso buono e positivo; da un certo punto in poi la cosa si complica, non funziona più, anzi a ben guardare se ne percepisce chiaramente il limite nell’apatia insofferente del figlio che comincia a non gradire più quel tipo di dialogo, se ne estranea tentando anche di mascherare questa sua insofferenza. In sostanza, la comunicazione si complica e assume connotati spesso difficili da decifrare e che finiscono per inaridire il dialogo, e così si finisce per parlare di tutto ma poco di quel che serve. Intendo dire parlare, confrontarsi sui temi della vita, sui sogni, i desideri, sulla necessità che riguarda tutti di conoscere se stessi per potersi rapportare con gli altri, e così via.

Insomma, a me è capitato così, c’è sempre poco tempo, altro di urgente da fare, da finire, cominciano a crearsi difficoltà di comprensione, si aprono crepe e a volte perfino dolorose lacerazioni dovute a motivi non sempre comprensibili né facilmente individuabili. Non dico che non si parli, no, il solito «Ciao, come va? Cosa fai? Dove vai? Ciao stai attento, non ti preoccupare» e via così, nel tran tran, in una quotidianità quasi asettica. Tutto questo c’è e sicuramente c’è anche il sentimento, quel legame indissolubile che si crea tra genitori e figli. Ma che manchi qualcosa lo si sente e io lo sento, alcuni argomenti, come quelli che ho citato, rimangono fuori, accantonati o messi in stand by sperando arrivi il momento per affrontarli. È come se fossero cose che non riguardano il rapporto padre-figlio, un rapporto tra due persone che ad un certo punto deve aggiungere all’essere padre e figlio anche la parità, l’essere due uomini, due donne, un uomo e una donna, che si riconoscono anche in quella dimensione e si stimano e si rispettano.

In definitiva, quello che mi ripropongo è di non sprecare questo tempo, di non disperdere il “clima” che si sta creando in questa specifica situazione. Dico a loro che è una bella occasione per me e li ringrazio per essersi offerti di accompagnarmi, di condividere la loro vacanza con il mio Cammino. Mi hanno fatto veramente un grande regalo. Colgo anche l’occasione per dire a Francesca che, per me e anche per mia moglie, lei come anche Margherita, la moglie di Enrico, e Jimi il marito di Lisa, sono componenti della famiglia equiparabili ai nostri figli, sono per noi esattamente come i nostri figli e tali resteranno qualunque cosa succeda in futuro. Magari per qualcuno può sembrare una banalità, una cosa ovvia. Io invece penso non sia né ovvia e tantomeno banale quanto invece qualcosa che tocca aspetti profondi del nostro essere umani. Sento per loro lo stesso afflato, la stessa intensa passione che provo per i miei figli biologici, sono e resteranno miei figli. Ad ogni modo glielo dico, così come l’ho appena scritto, e la cosa risulta come una liberazione. L’abbraccio con entrambi mi infonde una carica notevole, e quella che fino a quel momento era stata solo una faticosa salita fra i sassi da lì in poi diventa “il Cammino”.

Saliamo verso l’Alto del Perdon su uno stretto sentiero scavato da milioni di passi, tra piante aromatiche che rendono il vento, che qui soffia incessantemente, una soave e delicata carezza di profumi e aromi; è per me, in quel momento, la carezza degli dei, la felicità che ti piomba addosso inaspettata e fugace.

La prima cosa che impariamo a fare subito dopo la nascita è mangiare. Affiniamo inconsapevolmente la nostra capacità di sopravvivenza fuori da quel posto sicuro e protetto che era l’utero materno. Mangiare è l’imperativo che il nostro “istinto” ci detta, e che ci fa attaccare al seno materno e succhiare, che ci spinge a portare alla bocca tutto quello che possiamo e a mettere la bocca su tutto ciò che è a portata di bocca. Sentiamo, apriamo gli occhi: anche queste sono azioni involontarie e che succedono in automatico; sentiamo e vediamo la mamma e tutte le cose che ci stanno attorno e che ci incuriosiscono. Da qui la seconda cosa che impariamo a fare: camminare; mi viene da pensare che se mangiare, vedere e sentire sono cose automatiche, una dettata dall’istinto di sopravvivenza, le altre che accadono indipendentemente da noi, forse imparare a camminare, a muoverci, in realtà è la prima cosa che decidiamo di fare: ci muoviamo per seguire la mamma, fonte di cibo, per curiosità, per raggiungere le cose che ci stanno attorno e attirano la nostra attenzione. All’inizio, più che camminare, strisciamo; poi pian piano impariamo a stare seduti e quindi a muoverci saltellando sul culo, scopriamo in seguito che possiamo muoverci gattonando a quattro zampe, finché un giorno, attaccandoci a qualcosa, alle gambe del tavolo, ad una sedia o alla mano del papà, riusciamo a tirarci su due piedi. In quel momento, avendo guadagnato la stazione eretta, cominciamo a vedere il mondo che ci circonda da un’altra prospettiva e la necessità di camminare diventa un bisogno, un qualcosa che non ci lascerà più per tutta la vita.

Camminare è quindi prima di tutto una necessità, movimento, è spostarsi da un posto all’altro. È dirigere il nostro corpo in una determinata direzione, è muovere le gambe per andare. È vero che oggi ci si può spostare anche senza camminare, come dicevo prima siamo arrivati a Pamplona quasi senza camminare, comodamente seduti sulle poltroncine dell’aereo, ma questo è un altro discorso e attiene comunque alla capacità dell’umanità di camminare, progredire, andare avanti nel tentativo di migliorare le sue possibilità. La cosa importante da evitare penso sia quella di perdere la nostra umanità, di diventare dipendenti dalla tecnica dimenticando quel che siamo, l’essenza di quel che siamo, quel qualcosa di non materiale ma che sentiamo essere parte di noi.

 Ho provato a chiedere a un amico che a causa di un incidente è costretto su una sedia a rotelle, una sedia super tecnologica, che si muove senza doverla spingere, che gli consente di andare dove vuole, anche in macchina, anche in salita, cosa chiederebbe se potesse esprimere un desiderio, uno solo e che fosse esaudito. Ebbene, la risposta è stata: «Camminare, vorrei camminare, farlo con le mie gambe e salire una ripidissima salita fino a sentire i muscoli urlare di dolore. E continuare». Camminare è un bisogno insopprimibile per l’uomo, una necessità della quale non ci rendiamo conto tanto è normale farlo.

Camminare è muoversi in una qualche direzione, non necessariamente e non sempre nota, conosciuta. Si può infatti avere una meta da raggiungere e ci si muoverà, si camminerà nella direzione dell’obiettivo, spesso percorrendo strade già tracciate da altri, già conosciute, dove il rischio e i pericoli sono ridotti al minimo. Avendo la stessa meta si possono cercare strade nuove e camminare nell’incerto, nel dubbio, cercando comunque di mantenere la direzione per non mancare la meta finale. Ma può essere anche che non si conosca bene nemmeno la meta, che non si sappia esattamente dove andare, che si abbia solo un’idea di un ipotetico approdo, di un punto d’arrivo e si sperimentano vie diverse, sconosciute, magari anche piene di insidie con il rischio, che è quasi una certezza, di perdersi. Forse proprio per questa incertezza, per questo “ignoto”, per il gusto della scoperta e l’adrenalina che porta con sé la sorpresa, per il piacere profondo e intimo che dà la conoscenza, alcuni – e io fra quelli – insistono e scelgono di percorrere anche queste strade.

Camminare può però anche essere solo il bisogno di muoversi, di portare a spasso se stessi e i propri pensieri senza una strada già segnata, senza una meta precisa. Capita, e a me è capitato più d’una volta, di vagare a caso senza porsi il problema di dove porti quel sentiero o quella stradina, immergendosi totalmente nei propri pensieri tanto che quel che ci circonda diventa irrilevante e quasi sparisce e riusciamo perfino a vedere un paesaggio che esiste solo nella nostra testa, che non è reale, eppure in quello camminiamo, ci muoviamo. Sognare ad occhi aperti. Anche questo è camminare. Non solo con le gambe: cammina la fantasia, cammina il pensiero. 

Camminare fa pensare ai piedi, allo strumento che, assieme alle gambe, ci permette di muoverci e camminare; ma qualcuno cui ho chiesto di dirmi la prima parola che gli veniva in mente se gli dicevo camminare mi ha risposto «Sole, un viale alberato in una giornata piena di sole», un’idea che gli dava una sensazione di libertà; e camminare è sicuramente anche essere liberi. Chi è prigioniero non è libero, è costretto; privato della libertà, non può camminare, un tempo era immobilizzato dai ceppi, da una palla al piede o, con altri prigionieri, attaccato ai remi delle galere e, anche oggi, è comunque costretto in una cella, rinchiuso, non libero di muoversi. Tuttavia la facoltà tutta umana di pensare ci consente di camminare, con la mente, con il pensiero, anche in condizioni di restrizione della propria libertà personale fisica. Molti uomini – politici, pensatori, poeti incarcerati per le loro idee, per reati di opinione, per avere con le loro idee o i loro scritti disturbato il potere – pur essendo privati della possibilità di camminare materialmente hanno trovato il modo di “evadere” camminando con il pensiero, e questo loro camminare ha prodotto pagine di poesia, di idee e pensieri ancora oggi fonte di piacere e di studio. Alcuni filosofi della Grecia antica hanno elaborato pensieri senza mai muoversi da Atene, eppure hanno costruito vie sulle quali ancora oggi l’umanità cammina. Comunque la si giri, quindi, camminare è libertà, è sentirsi ed essere liberi.

Liberi come questo vento. È lui il padrone di questo monte, l’Alto del Perdon, un’altura dell’omonima sierra a poco più di 700 metri sul livello del mare; è lui che governa questi spazi, che li rende un posto di immaginifico mistero. È il vento, imprendibile eppure lo senti, ce l’hai addosso, ti avvolge e ti cattura, invisibile eppure lo vedi dappertutto, nei fili d’erba che si muovono come in una danza, nei capelli scompigliati dei presenti, nel piegarsi degli arbusti aggrappati alla roccia, nell’ombra delle nuvole che corre sulla cima, nella voglia che mi assale di farmi prendere e portare, portare in un sogno, quel sogno che ai pellegrini che passano di qui rimane impresso nella memoria, che diventa memoria iconica del Cammino. Qui la comunità degli Amici del Cammino di Navarra ha fatto erigere il famoso monumento del pellegrino, un’opera dello scultore Vicente Galbete che ritrae una comitiva di pellegrini, chi a piedi, chi a dorso di cavalli e asini e accompagnati da un cane, passati di qui e diretti a Santiago di Compostela nel corso dei secoli. Le sagome, realizzate in metallo e fissate nella roccia, appaiono straordinariamente vive, appaiono, ai miei occhi, in movimento seppur immobili, vivono e vivono nel vento. Si muovono, indicano la via, esprimono emozioni. Nulla sta fermo in questo posto onirico. Una frase incisa alla base di una delle figure recita così: «Dove il cammino del vento incontra il cammino delle stelle». Poesia, come è poesia tutto in questo posto, estetica pura.

Siamo solo all’inizio di questo nostro pellegrinaggio, eppure qui il Cammino è già tutto presente, la sua forza, la fatica, il sogno, tutta la sua bellezza si materializza sulle gambe, in tutto il corpo e soprattutto nella mente, l’immaginazione prende il sopravvento. Qui senti il bisogno di lasciare tutto il passato, o quanto meno di accantonare, mettere da parte, tutto quello che di artificiale, di non necessario, fino a ieri sembrava indispensabile. Non serve più adesso, da qui in avanti, non serve a niente, sarebbe un inutile peso a gravare le spalle. Qui cambia lo sguardo del pellegrino che si volge verso occidente con occhi nuovi, vedendo davanti a sé altri orizzonti, un mondo e un modo di vivere diversi. Si rende conto di non dover cercare perché quel che serve è lì, tutto intorno a lui ed è lì per lui. Capisce che non c’è bisogno di cercare, basta guardarsi intorno con occhi umani, è sufficiente camminare curiosamente, liberando lo sguardo, facendo battere il cuore, camminando con la mente, usando la ragione. Tutto si farà conoscere, tutto è possibile conoscere, bisogna solo decidere di farlo. Si viene presi da una sorta di frenesia dolce e delicata, dalla voglia di muoversi per incontrare e scoprire. Forse il vento ha aperto varchi, ha abbattuto fortezze nelle quali custodiamo il nostro io e l’ha messo allo scoperto, lo mette sul cammino per tutti. Se siamo parte di un tutto, il tutto inevitabilmente ci attrae, ci porta verso sé, come una calamita.

 Quel tutto, delle nostre magagne quotidiane, delle beghe, degli egoismi ed egocentrismi, dell’invidia, dell’indifferenza, della folle corsa verso chissà cosa, non sa che farsene. E questo è del tutto indifferente dal fatto che lo si chiami Natura, Assoluto, o Dio. 

Arriviamo a Puente la Reina attraversando il ponte romano che dà il nome alla città e subito veniamo attratti da quattro enormi nidi aggrappati ai lati del campanile della chiesa di S. Pietro apostolo, un edificio del XV secolo situato molto vicino al ponte. Avvicinandoci vediamo anche i proprietari di quei nidi, le cicogne. È la prima volta che vedo questi grandi uccelli nel loro ambiente naturale, ce ne sono tre in piedi sui nidi e sono veramente imponenti e, al contempo, eleganti con il loro piumaggio bianco e nero e il lunghissimo becco che, da quaggiù, mi sembra rosso. Mi incanto un po’ lì a guardarle scattando anche qualche foto; dopo un po’, una alla volta, abbandonano il nido librandosi maestose nel cielo. Come sento la mancanza di Gigliola in questi momenti.

Quando entriamo nell’ostello che è proprio di fronte alla chiesa, il volontario che si occupa della nostra registrazione e ci ha visti osservare le cicogne, ci spiega che i loro nidi sono dei veri e propri monumenti che possono arrivare a pesare 400 chili e possono creare non pochi problemi alle strutture, obbligando i custodi di queste chiese a costanti e costose cure di manutenzione.

Le chiese che incontriamo e incontreremo nel Cammino sono tutte molto simili tra loro. Costruite con la pietra locale di un colore marrone chiaro e con un progetto architettonico che si ripete, mostrano chiaramente i segni della devozione popolare, la semplicità e il rigore estetico, la forza e la resistenza che oppongono alle insidie dei secoli e anche alle costruzioni delle cicogne, che mostrano a loro volta stupefacenti doti architettoniche e soluzioni ingegneristiche di notevole pregio. Si consideri che i loro nidi non li costruiscono su un tetto piatto e liscio, ma spesso a lato di guglie, nei posti più alti e sfidando pendenze notevoli e spazi ristretti, tali da far apparire i nidi quasi sospesi nel nulla. Sul Cammino troveremo molte di queste chiese, alcune estremamente piccole e disadorne, anche in posti remoti e spesso di non facile accessibilità, posti dove non vive quasi più nessuno, dove solo qualche vecchio o qualche prete in pensione e, in alcuni casi, dei volontari che trascorrono lì un po’ del loro tempo, si occupano di tenerle aperte e pulite. Tutte queste persone sopperiscono alle necessità delle strutture, e anche alle loro, confidando nelle donazioni dei pellegrini.

Alcune di queste strutture vengono adibite ad ostelli ad uso esclusivo dei pellegrini. Non esiste un listino prezzi per dormire, ma l’ospitalità, e spesso anche la cena comunitaria e la colazione, sono date fidando nel buon cuore dei pellegrini. Nelle indicazioni di questi ostelli, alla voce prezzi c’è scritto “donativo”, ognuno è libero di dare ciò che si sente di dare e quel che può dare, non c’è alcun obbligo. Questo tipo di ospitalità è presente soprattutto nella prima parte del Cammino, quella dalla Francia alla Galizia, quella più lunga ma anche, per l’aria che si respira, per l’umanità che si vive, per la fatica e il sudore delle interminabili e assolate mesetas, anche la più entusiasmante. Qui, ad ogni passo, si sperimenta l’essere pellegrino, l’essere con se stessi e si capisce che non avendo niente di più dell’indispensabile, gambe per camminare e spirito, il pneuma che fa vivere oltre la materia, si riesce a essere in comunione, si può essere utili all’altro, per e con l’ altro, dove l’altro sono i pellegrini che si incontrano sulla via, ma anche i volontari che li ospitano. Insomma, pellegrino fra pellegrini e sola umanità che unisce, che libera, che fuga le paure perché capisci che non sei solo.

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